mercoledì 23 settembre 2009

"Testamento Biologico"

Si segnala, per opportuna conoscenza, l'intervento che l'on Lino Duilio ha fatto in Commissione Affari Sociali della Camera sul c.d. "Testamento Biologico"

Disposizioni in materia di alleanza terapeutica, di consenso informato e di dichiarazioni anticipate di trattamento (c.d. "legge sul Testamento Biologico")

(On. Lino Duilio – Intervento in Discussione generale sul testo approvato dal Senato e sulle proposte presentate alla Camera - Commissione Affari Sociali, 22 settembre 2009)


 

Premessa

Onorevoli colleghi, in premessa vorrei esprimere un ringraziamento al relatore in Commissione, onorevole Di Virgilio, per la relazione di ampio respiro con la quale ha introdotto i lavori della Commissione, su un tema al quale credo nessuno possa avvicinarsi se non con "timore e tremore".

E' un ringraziamento non formale perché vi ho trovato, tra l'altro, una sincera tensione verso l'ascolto delle diverse posizioni, la giusta sottolineatura dell'assoluto valore della vita, il conseguente ribadimento del no ad ogni forma di eutanasia, il rigetto sia dell'abbandono che di ogni pratica di accanimento terapeutico, il richiamo del rischio di quello che ha definito "un eccesso di norma" in questo nostro tempo sociale, la fondamentale importanza delle cure palliative (sulle quali credo di poter dire che alla Camera abbiamo nei giorni scorsi fatto un iniziale, buon lavoro), il riferimento ad una Dichiarazione Anticipata di Trattamento (cosiddetta DAT) che sia espressione di autodeterminazione della persona ma con possibile "spiraglio" di revisione, ad evitare che si trasformi in una "presunzione fatale" sul proprio destino, "senza tener conto – come l'onorevole Di Virgilio ha affermato – dei mutamenti, delle trasformazioni, delle sorprese che la vita sa riservare ogni giorno".

Dopo aver ringraziato il relatore, vorrei anche ringraziare i colleghi che sono intervenuti sinora, dai quali ho imparato molte cose e che, tutti, hanno affrontato il tema in discussione con serietà e profonda tensione morale.

Non intendo, con questa premessa, spingermi oltre, fino ad arrivare ad esprimere un giudizio su alcune questioni aventi peraltro peculiare valore politico, questioni ancora più complesse che formano oggetto del testo licenziato dal Senato.

Prima di addentrarmi, peraltro, nel campo controverso delle questioni di merito vorrei, nel poco tempo che ho a disposizione, con onestà intellettuale, dichiarare le mie convinzioni (che - lo vorrei ricordare - non sono certezze) ed argomentare la mia posizione sull'attività di normazione (o di metanormazione, come sostiene taluno) che andiamo svolgendo.


 

Il valore della vita

Io ritengo che ciascuno di noi porti in Parlamento le proprie convinzioni, che risalgono a motivazioni e fondamenti diversi, di ordine religioso, morale, sociale e culturale. Sulla base di questo nostro essere espressione di convincimenti e valori di riferimento, e senza trascurare la dovuta consapevolezza di esercitare in questa sede un ruolo di rappresentanza che rinvia a cittadini elettori portatori di opzioni e valori differenti, in coscienza mi sento di esprimere una preliminare, personale convinzione sul valore della vita.

Io credo che il valore assoluto della vita costituisce oggi un principio unanimemente acquisito nella nostra società. Tale principio, però, mi pare risenta progressivamente della tendenza, tipica dell'epoca contemporanea e moderna, a perimetrare nell'esclusiva sfera materiale del corpo il suo connotato di valore. Con la conseguenza, inesorabile, di far nascere alcune contraddizioni e di vedere assurgere "la qualità" come unico criterio di misura del valore dell'esistenza umana. Dal che deriva, ulteriormente, che la decisione "finale" su di essa è frutto di un procedimento puramente "razionale" dell'individuo, in buona sostanza legato alla valutazione della condizione oggettiva e materiale in cui si trova il suo corpo ed al suo "diritto proprietario" di decidere su di esso.

La mia convinzione sul tema è un poco diversa.

E, se mi è consentito un riferimento letterario che spero non venga considerato una civetteria intellettuale, la riepilogherei nelle parole che Fedor Dostoevskij mette in bocca al protagonista del romanzo Delitto e Castigo, Raskolnikov. Il quale, fermatosi a parlare, in una trattoria malfamata, con Duklida "una giovane di circa trent'anni, butterata, tutta lividi, col labbro superiore gonfio", che evidentemente in quel posto vendeva per necessità il suo corpo, dice: "Dove ho letto, dove ho letto che un condannato a morte, un'ora prima di morire, dice o pensa che se gli toccasse vivere su un'alta cima, su una roccia, o su di uno spiazzo tanto stretto da poterci posare solamente i suoi due piedi - e intorno a lui ci fossero degli abissi, l'oscurità eterna, un'eterna solitudine e un'eterna tempesta - e dovesse rimaner così, in un arscin di spazio, per tutta la vita, per mille anni, in eterno - preferirebbe viver in quel modo che morire subito? Pur di vivere, vivere, vivere! Vivere come che sia, ma vivere!... Che verità! Che verità!, Signore! E' vile l'uomo!... Ed è vile chi per questo lo chiama vile" aggiunse dopo un momento".

Ecco, io la penso così, e penso questo anche a prescindere da riferimenti di fede o religiosi.

Penso che la vita ha significato in ogni suo istante vitale, e che ognuno di questi istanti abbia valore in sé, non predeterminabile.

Sono dunque perplesso anche sul fatto che possa darsi la possibilità di una decisione "in anticipo" sul momento ultimo della vita: mi chiedo, cioè, se possa avere un senso assumere "in anticipo" un impegno su una successiva decisione irreversibile, quando in quel momento successivo il naturale richiamo della vita potrebbe riservare una "sorpresa", per richiamare il termine del relatore, dapprima imprevedibile.


 

Implausibilità di una disciplina normativa

Con il conforto di queste convinzioni, ma interessato e sinceramente attento ai "pezzetti di verità" che ritengo esistano in ciascuna posizione, sono a sostenere l'opportunità che su un terreno per tanti versi così "sdrucciolevole" come quello di disciplinare per legge la materia del "fine vita" sarebbe meglio fermarsi e non fare nessuna legge o, al massimo, varare una norma essenziale su alcune questioni che richiamerò brevemente alla fine di questa mia riflessione.

Provo ad argomentare.

Innanzitutto, io credo che sancire il diritto a stabilire, tanto più per via formale, il momento della fine della propria esistenza significa, lo si ammetta o meno, teorizzare una sorta di "reductio ad unum" della vita, cioè a dire sostenere che essa diventa esclusivamente corpo, con lo spirito che scompare dall'orizzonte della umana riflessione. Annoto, incidentalmente, che parlo intenzionalmente di "spirito" mentre, secondo i miei principi, dovrei parlare di "anima". Ma so bene che in questa sede questo riferimento verrebbe letto come eccessivamente legato ad un fondamento cristiano che peraltro mi sento di testimoniare con profonda convinzione. Ma, per l'economia di questa discussione, mi basta riferirmi allo "spirito" o, se preferite, a quello che potrei definire "soffio vitale". Ebbene, escludendo evidentemente le situazioni di condizioni scientificamente diagnosticabili come vita vegetativa, può la vita essere ridotta al solo corpo? Può la ragione in nome della religione della libertà occultare ogni discorso su quell'imponderabile dimensione interiore che è lo spirito?

E cosa sappiamo noi dello spirito, cosa può sapere la scienza dello spirito, quando essa, attraverso la tecnica, si cimenta nella possibilità di un atto che, nella sua ambivalenza, può risolversi in un esercizio di onnipotenza, sia che prolunghi artificialmente l'esistenza umana sia, all'opposto, che di quella esistenza produca con efficacia la fine?

La nostra discussione su come disciplinare, ex lege, il momento finale della vita incorpora una dimensione proprietaria estremizzata del corpo, segnando una via ideologica alla questione, non casualmente analogica sul piano tecnico-giuridico, come il rimando di senso della semantica utilizzata per l'occasione non fatica a far intravedere (il riferimento, evidentemente, è all'utilizzo del termine "testamento" per definire - come per l'eredità - l'atto a cui affidare la volontà finale di ciascuno sulla propria vita).

Sulla linea di questa progressiva tendenza, nel dibattito sulla legge sul c.d. "testamento biologico" polemiche vivaci oppongono le posizioni di coloro che appartengono al partito "del diritto alla vita" rispetto a coloro che teorizzano il "diritto alla libera scelta". In particolare, gli appartenenti a questo "secondo partito" sostengono che deve essere approvata una legge secondo la quale ciascuno decide "per sé e da sé", in tal modo lasciando a ogni cittadino la libertà di comportarsi secondo il proprio orientamento.

Una tale impostazione verrebbe opposta ai cosiddetti fautori del "diritto alla vita", i quali avrebbero il torto di voler imporre a tutti la propria concezione etica, dimenticando che uno stato laico deve rispettare la libera opinione di tutti i suoi membri.

Anche su questo aspetto, nutro qualche perplessità. In quanto quella addotta mi sembra un'argomentazione debole, per molti versi superficiale se non ingannevole. Sostenere, infatti, quella tesi significa misconoscere che sostenere il diritto per tutti di fare ciò che si crede rappresenta una posizione speculare ed "ideologica" anch'essa. Rimettere, infatti, in ciascuno il fondamento del diritto di vivere o meno, affermare cioè il principio etico di autodeterminazione, è una posizione che porta anch'essa nel dibattito politico un punto di vista etico. Punto di vista certo rispettabile ma anch'esso "di parte", obiettivamente "costrittivo", nel caso venisse sancito per legge, nei riguardi di tutti coloro che sostengono il principio della intangibilità (o della sacralità) della vita.

La questione, molto intricata, è quella che il relatore ha ben riepilogato. Sostenendo che "è quindi necessario elaborare una legge che contempli il rispetto dell'esercizio della libertà del soggetto, come garantita dalla Costituzione, con la tutela della dignità di ogni uomo nonché del valore dell'inviolabilità della vita".

Orbene, il ricorso alla legge, quale strumento per disciplinare un momento così importante e così peculiare della vita qual è quello della sua fine, costituisce, io credo, la spia di una pretesa velleitaria, frutto di razionalismo ed illuminismo, oltre che indice di un pericolo, quello di consentire l'intrusione dello Stato in uno spazio che deve essere gelosamente custodito al privato.

Ricorrendo alla legge, la cultura c.d. "liberale" realizza – io penso - un paradosso, quello di consegnare, attraverso la pretesa della norma "generale" e "astratta", la libertà e la responsabilità dell'individuo al suo antagonista di sempre, che è proprio lo Stato. Tutto questo in un tempo nel quale si assiste, per altro verso, proprio alla crisi della legge "generale" ed "astratta", con la proliferazione di differenze che reclamano una disciplina sempre più "concreta" e "particolare", diversa da situazione a situazione.

Ma al di là di questa critica, io sono convinto che alla legge non si possa chiedere di dare delle risposte a delle questioni "ultime", si può chiederle forse, al massimo, di dare risposte a quelle "penultime". E sono convinto, come anche altri ritengono, che la democrazia è stata organizzata per trovare soluzioni a questioni abbastanza simili, rispetto alle quali la legge "astratta" rappresentava e può rappresentare una buona approssimazione delle soluzioni necessarie.

Andare oltre è, come dicevo, velleitario e non garantisce, oltretutto, nemmeno che non esplodano più problemi di quanti, con la legge, non si pensi di chiuderne.


 

Le ragioni del terzo partito, quello della zona grigia

Come sarà apparso oramai chiaro, io mi ritrovo ancora nelle ragioni del c.d. "terzo partito", fatto da coloro (purtroppo minoritari) che teorizzano la necessità di una "zona grigia" - affidata alla autoregolazione sociale - in materia di disciplina del fine vita.

Questa posizione parte dalla convinzione che una legge sulla fine della vita diventa il tentativo di imporre, in modo astratto se non ideologico, i canoni della ragione o della fede in un campo dove l'esperienza umana si fa inevitabilmente solitaria ed incomunicabile, con ciascuna di esse che diventa unica e particolare, diversa dall'altra, impossibile da "incasellare" in una fattispecie generale, codificata per tutti.

In quel momento può intervenire solo la pietas, la trama di affetti e di relazioni umane che circondano il malato, l'amore riconosciuto dell'altro, la paziente dedizione del medico curante, insomma una "comunità amante", che accompagna la persona nel suo ultimo viaggio. Oltretutto, noi sappiamo che il soggetto, quando può determinarsi liberamente, ha diritto a rifiutare le cure. Si pone dunque un problema di uguaglianza con situazioni nelle quali il soggetto non sia più in gradi di agire liberamente. Ma a me pare chiaro che si tratti di condizioni diseguali e quindi non assimilabili da un punto di vista giuridico. Ne dovrebbe derivare, anche sotto questo profilo, l'inopportunità di irrigidire in una formula normativa la molteplice varietà del reale. Si tratterebbe della grevità della politica piuttosto che della plasticità del diritto.

E' la persona che soffre, insieme e dentro quella comunità, a decidere nella discrezione e nella tenerezza di quei momenti su come procedere e, se necessario, cosa decidere. E quando ci fosse (stata) una precedente, esplicita dichiarazione di intenti sul da fare, "allora per ora", è sempre nella discrezione e nella pietas di quella comunità che se ne terrà conto e saranno prese le decisioni più sagge.

Nella essenzializzazione di un eventuale atto normativo, quando proprio lo si volesse predisporre, il compito dello Stato potrebbe ridursi ad una duplice funzione: quella di apprestare le migliori condizioni, strutturali, di assistenza domiciliare e di cure palliative, per favorire il più sereno e meno doloroso decorso della malattia; quella di garantire la necessaria trasparenza del percorso terapeutico finale, prevedendo l'obbligo di evidenze formali che affranchino dal rischio di possibili abusi.

Ma si tratta, come si vede, di ben altro rispetto a quanto "bolle in pentola" dopo approvazione del testo del Senato ed in presenza delle tante proposte di legge depositate alla Camera ed abbinate alla discussione.

Se proprio una legge la si vorrà far nascere, nel mentre confermo tutte le mie riserve e le mie perplessità sull'opportunità di questa attività di normazione, confido almeno che, grazie all'attività emendativa, emerga una legge la più equilibrata possibile.

Grazie.


 

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