giovedì 1 maggio 2008

Partito democratico, adesso un'Italia nuova

Perché festeggiare il lavoro

Oggi è il primo maggio. È la festa nazionale del lavoro. Si tratta, in effetti, di una delle più consuete ricorrenze civili. Al contrario di altri tempi, però, questa celebrazione sembra essere divenuta quasi un fatto anacronistico, quasi un evento estemporaneo. Se così fosse, si tratterebbe di una grave perdita di attenzione verso un aspetto importante della vita.

A volte sembra che siamo tutti talmente presi dal lavoro da sentire come inconsueto fermarsi anche solo per un giorno a riflettere su cosa significhi veramente lavorare, su cosa significhi essere impegnati quotidianamente in quello che ognuno fa.

Secondo un certo modo d´interpretare la storia dell´umanità, il lavoro non sarebbe altro che un fenomeno moderno. Moderno, cioè, nel senso di un modo di vedere la vita secondo l´ottica contemporanea della prassi, dell´agire, incompatibile con i ritmi rilassati e contemplativi di una volta. Questa lettura è tuttavia abbastanza fuorviante. Si tratta di ciò che Bacone chiamava idola, cioè un´immagine falsa, ingegnosamente creata dall´immaginazione anche se realmente insignificante.

Basta riflettere un momento su quanto appaia difficile oggi la vita per molte persone, malgrado i sussidi e le solidarietà che un tempo non esistevano affatto, per capire quanto fosse necessario lavorare nel passato – come o se non più di oggi – anche solo per riuscire minimamente a sopravvivere.

Certo, i tempi sono cambiati. Anche se oggi come ieri il lavoro continua a dominare il paesaggio umano, misurando il senso della dignità personale, ponendo interrogativi sul livello dei diritti posseduti e, non da ultimo, celebrando la sua funzione sociale almeno una volta all´anno con un giorno di festa.

Eppure, pare che nulla sia cambiato rispetto a ciò che i filosofi classici dicevano a proposito del lavoro. Mi sembra cioè ancora valida, ad esempio, l´affermazione forse un po´ drastica di Musonio Rufo che indicava «l´agricoltura come il mezzo più conveniente soprattutto per un pensatore per guadagnarsi da vivere», intendendo con ciò che la contemplazione è un privilegio che può essere raggiunto solo col sudore e la fatica.

Anche il mondo attuale può condividere, ad esempio, l´analogo giudizio di Sesto Empirico, secondo cui «vi è necessità sempre di apprendere o esercitare un´arte, cioè un lavoro, per poter vivere onestamente».
Ho sempre trovato particolarmente illuminante, in questo senso, la considerazione simile alle precedenti del giovane Habermas, il quale attribuisce al lavoro il ruolo di «una sintesi mediatrice tra uomo e natura». Ciò avvicina, in un certo modo, la sua visione pragmatica della società alla descrizione che del lavoro presenta, ad esempio, la tradizione vetero testamentaria. In effetti, anche senza essere filologi, basta leggere i primi capitoli della Genesi per capire che il privilegio accordato da Dio al genere umano di dare nomi alle cose è una capacità concessa a tutti dalla nascita, ma che si fa realtà soltanto attraverso uno sforzo effettivo di vita.

Forse questa costitutiva e universale caratteristica umana del lavoro è stata un po´ perduta con la contrapposizione ideologica più recente tra lavoro e capitale. Evidentemente a tutto vantaggio del secondo aspetto sul primo.
Il Novecento, ad esempio, ha lasciato in eredità al nuovo millennio una visione del lavoro intesa come attività tutto sommato secondaria rispetto alla ricchezza prodotta, generando una sorta d´identità del lavorare con chi fa un certo tipo di lavoro, cioè con la classe dei lavoratori. La vittoria di questa idea segna, però, lo smarrimento di un fattore decisivo della vita personale, ovvero il carattere soggettivo del lavoro, inconfondibile con qualsiasi concezione consumistica e merceologica del capitale.
Avere una ricchezza non prodotta, infatti, è possedere qualcosa, mentre lavorare è sempre accrescere se stesso attraverso l´azione e non soltanto immettendo qualche bene in più nel mercato globale. Da qui la tragedia di un lavoro perduto o di un´involontaria disoccupazione subita anche in assenza di una reale necessità economica da soddisfare.

In questa direzione sono andati certamente i padri costituenti italiani, volendo esplicitamente liberare il lavoro da una rigida identità di classe e permettendo l´emergere di un profilo veramente antropologico ed etico del lavoro come bene comune di tutti i cittadini. Anche se, ovviamente, l´organizzazione delle attività umane non può rinunciare ad un obiettivo di produttività e di profitto. Ma non perché tale sia la definizione del lavoro, ma perché è ciò che gli attribuisce una finalità e una motivazione soddisfacente.

Un lavoro, in effetti, che non s´indirizzasse alla produzione di ricchezza non sarebbe realmente un lavoro, ma un suo dannoso surrogato, prodotto ad arte da una società assistenziale in declino. Il germe di ogni solida imprenditorialità, alla fine, sta proprio nel cogliere il valore intrinsecamente umano del lavoro che permette ad ognuno di guadagnare una vera e propria "pienezza d´essere" e, conseguentemente, un vero e proprio incremento di benessere per sé e per gli altri. Un lavoro ben fatto e ben ultimato è così sempre una conquista collettiva, con una relativa indipendenza – sia ben chiaro, soltanto relativa – dai risultati raggiunti.

In fondo, malgrado le splendide descrizioni di Max Gluckman, il lavoro non può mai essere completamente ridotto né ad una "funzione", né ad una "struttura" della società. Esso riguarda, infatti, la base profonda non soltanto delle categorie economiche, ma anche di quelle più radicalmente umane. Cioè il bene proprio di chi con il lavoro si realizza come persona.
Joaquin Navarro-Valls - La Repubblica

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